
E cita esempi emblematici: il mulino, la macchina per la filatura del cotone – innovazioni che hanno trasformato l’economia, ma senza migliorare i salari. “Anche oggi accade lo stesso: la produttività cresce, ma questo non significa che crescano anche i redditi”. Secondo Acemoglu, l’automazione è un passaggio obbligato, ma non può essere lasciata a se stessa. Va governata, non subita. Se si vuole una prosperità condivisa, servono politiche attive, altrimenti i vantaggi resteranno concentrati. Nel passato – ricorda – le imprese hanno spesso spinto l’automazione per ridurre i costi del lavoro, comprimendo i salari. Da Alan Turing in poi, l’idea che le macchine potessero “pensare” ha alimentato un sogno collettivo. Ma oggi l’Ai, di per sé, non è un motore sufficiente del PIL. E questo vale non solo per gli Stati Uniti. “Abbiamo messo troppe uova nel paniere dell’automazione – avverte – e questo può accentuare le diseguaglianze”. E i rischi non sono solo economici. Sicurezza e controllo sono già temi cruciali. “Non è solo Facebook a sapere tutto di noi. I primi segnali ci sono già: il controllo può diventare invasivo e concentrato nelle mani di pochi”. Le Big Tech sono oggi più forti, mentre le istituzioni sono più deboli. Una sproporzione pericolosa. Serve una visione più ampia. “Non possiamo rimanere incollati solo all’Ai. Le macchine devono servire l’umanità, non il contrario”. Gli Stati Uniti – osserva – non hanno ancora definito un quadro normativo efficace. L’Unione Europea, al contrario, ha fatto molto, ma serve più innovazione, non solo regolazione. Una provocazione finale: “In Silicon Valley oggi ci sono moltissimi europei. Innovano lì, non qui. Questo dovrebbe far riflettere”. Anche l’istruzione, conclude, può migliorare grazie all’intelligenza artificiale, ma non senza condizioni. “Va bene che uno studente dialoghi con un chatbot, ma solo sotto la supervisione di un insegnante in carne e ossa”.