
L’intervento di Giulio Tremonti ha tracciato una riflessione lucida e articolata sui grandi cambiamenti del nostro tempo, intrecciando con rigore analitico storia, geopolitica ed economia. Riprendendo i temi del suo ultimo libro, l’ex ministro ha proposto una rilettura critica dei cicli storici più recenti, sottolineando come la globalizzazione, partita negli anni Novanta sotto il segno del progresso universale, abbia in realtà favorito una crescente disuguaglianza. “Abbiamo assistito a un trasferimento sistematico della ricchezza verso l’alto e della povertà verso il basso, con effetti devastanti soprattutto sulla classe media americana e occidentale”, ha osservato. Da qui, secondo Tremonti, derivano la sfiducia crescente nei confronti delle istituzioni e la frammentazione sociale che attraversa le democrazie.
Nel suo affondo geopolitico, Tremonti ha chiamato in causa direttamente le élite politiche ed economiche, accusate di aver sottovalutato – o peggio, ignorato – i segnali di crisi e di aver contribuito ad alimentare processi destabilizzanti. Emblematico l’approfondimento dedicato alla Russia di Vladimir Putin: la crisi del 2008, ha spiegato, ha segnato un punto di svolta nella visione del Cremlino, dando avvio a una nuova ideologia che oggi si traduce in una strategia di espansione verso ovest, dal Baltico ai Balcani. “Trattare con Mosca come se fosse un partner commerciale è un errore di prospettiva – ha ammonito – bisogna comprendere la visione storica, l’ideologia che guida le sue scelte, non solo i suoi interessi di mercato”.
Secondo Tremonti, siamo di fronte alla fine della globalizzazione come l’abbiamo conosciuta: un processo ormai superato, che cede il passo a un nuovo ordine mondiale, segnato da blocchi contrapposti, tensioni crescenti e una competizione sempre più serrata tra potenze. In questo scenario, l’Europa è chiamata a ridefinire il proprio ruolo, mentre il sistema finanziario internazionale si trova di fronte a sfide inedite, che impongono una nuova consapevolezza e una revisione profonda dei paradigmi finora dominanti.
Peter Gomez ha portato sul palco l’esperienza del giornalismo investigativo, e con essa una visione lucida e disillusa della democrazia contemporanea. “Ci fanno ancora votare – ha detto – ma forse solo perché sanno che il voto non conta più davvero”. Una provocazione che ha colto l’essenza di un sentimento sempre più diffuso: la politica nazionale appare spesso impotente di fronte a sfide che travalicano i confini – dalla finanza globale alla gestione delle migrazioni, fino all’impatto dell’intelligenza artificiale sul lavoro e sulla vita sociale.
A quel punto il dialogo si è spostato proprio sul futuro prossimo: educazione, lavoro, automazione. Tremonti ha espresso un cauto ottimismo, riconoscendo che “viviamo un tempo di trasformazione radicale, ma la storia si reinventa sempre. Le onde lunghe della storia hanno sempre generato nuove forme di equilibrio”.
Sull’Europa, il giudizio è stato più severo. L’ex ministro ha criticato duramente l’eccesso di regolamentazione comunitaria: “Siamo il continente più imbrigliato da norme che spesso ignorano la realtà del mondo. Non si può decidere all’unanimità su tutto in 27, nemmeno in un condominio si fa così.” Ha evocato il Trattato di Roma del 1957 e i suoi “uomini forti”, per poi paragonare il presente a una fase in cui l’Europa rischia di essere governata da procedure più che da visioni.