
Marco Magnani, stimolato dalle domande di Sara Varetto, ha spiegato come “spazio, artico e subacqueo” rappresentino le nuove frontiere: ci sono infatti “grandi opportunità economiche, di innovazione e scoperta” e queste aree possono aiutarci a “risolvere la sfida del cambiamento climatico”. Tuttavia, è necessario rilanciare la cooperazione internazionale, che attualmente è “in un momento di minimis”. Proprio per questo, le “frontiere” sono sì opportunità, ma rischiano di diventare “fronti”, ovvero punti di scontro fra Paesi diversi. Magnani ha infine ricordato che l’Italia dispone di una forte tecnologia.
Roberto Battiston ha ripercorso l’esplorazione spaziale, sottolineando come siano passati cinquant’anni dall’inizio dell'"avventura spaziale”. Dalla fase iniziale di sorpresa e avventura — in cui perfino la geopolitica evocava temi romantici — si è ora entrati in una fase dominata dall’economia. “La NASA ha avuto un mandato preciso, quello di trasferire l’orbita bassa ai privati, e c’è riuscita”. Il risultato è che alcune figure hanno “acquisito un potere tecnologico talmente grande che la stessa NASA sta venendo messa di fianco”.
Paola Severino, che è anche presidente della Luiss School of Law, ha approfondito il tema da un punto di vista giuridico, osservando come su queste nuove frontiere la giurisdizione sia ancora molto carente. “Sulla terra si stanno esaurendo le risorse, ma nello spazio vi sono, ad esempio, quintillioni di dollari solo per le terre rare”. In tema di tutela dei fondali marini, la normativa risale addirittura all’Ottocento, mentre una legge risalente agli anni ’50 stabilisce che nessuno può essere proprietario di un pianeta, ma ciò che oggi conta sono le concessioni, per le quali non esiste ancora un riferimento giuridico. “Si stanno esaurendo le orbite dei satelliti, e chi le ha prese per primo pretende di tenerle”. Non possiamo affidare ai privati questo tipo di decisioni, ha concluso Severino, lanciando un appello alle giovani generazioni e ricordando come Luiss e Fincantieri stiano collaborando per un centro di ricerca dedicato ai giovani su questi temi.
Claudio Cisilino ha ricordato che circa il 95% dei dati passa attraverso cavi sottomarini, affermando che “il subacqueo rappresenta ciò che lo spazio rappresentava 50 anni fa. Oggi sappiamo più dello spazio che dei nostri fondali”. I mari profondi sono un settore critico dove è fondamentale la tecnologia: “sott’acqua si vede male, anche a basse profondità, e non si riesce a comunicare”. Ha riportato un esempio concreto: “A Lampedusa è stato tranciato un cavo di comunicazione da un peschereccio. Per un po’ sull’isola non si è potuto telefonare né prelevare dai bancomat”. Cisilino ha concluso sottolineando che, se sappiamo piuttosto bene cosa avviene sopra il mare, ciò che accade sotto resta in gran parte ignoto.
Infine, Francesca Bondini ha spiegato che “non solo abbiamo mappato solo il 20% dei fondali marini, ma, se parliamo delle immagini acquisite, abbiamo immagini solo dello 0,01%”. Il 93% dei fondali si trova a più di 200 metri di profondità: “non ci si vede, è una sfida tecnologica esplorarli”. Il subacqueo è già costellato di cavi elettrici e tubazioni, ma la nuova frontiera è legata alla ricerca di materiali: “Sul fondo del mare esistono noduli polimetallici con materiali fondamentali per la transizione energetica”. È una questione di sostenibilità: “La maggior parte di questi noduli si trova tra i 3.000 e i 5.000 metri di profondità. Si sta cercando di capire cosa succede se dovessimo prelevarli, perché laggiù ci sono forme di vita di cui non conosciamo l’importanza. Potrebbero essere alla base dell’ecosistema”. Inoltre, “questi noduli, proprio perché contengono energia diversa, pare abbiano la capacità di separare l’idrogeno dall’ossigeno, rappresentando quindi anche una fonte di ossigeno sul fondo del mare”.