
“Ieri sera ero ancora nel cuore della Francia, dove ora alleno,ma sono felice di essere qui. Ho dormito in auto e mi sento fresco. Ho esordito giovanissimo, nel 2002 contro la Nuova Zelanda, con John Kirwan allenatore, e ho smesso a 40 anni. Eravamo un gruppo nuovo, pieno di entusiasmo: per vent’anni siamo stati l’ossatura della nazionale. I giovani dovevano guadagnarsi il rispetto, i più anziani lo pretendevano.”
Nel rugby italiano Parisse ha vissuto la stagione del passaggio. “Kirwan fu lungimirante: ci diede fiducia quando non eravamo pronti, né fisicamente né tecnicamente. Quell’opportunità ci ha fatto crescere più in fretta.” E poi gli uomini di squadra: “Un mal di testa me l’ha fatto venire Martin Castrogiovanni, ma era uno con cui saresti andato in guerra. Parlava poco, ma trasmetteva energia. Un pilone fondamentale.”
Nel 2005 Parisse sbarca in Francia, “in un campionato nuovo, un’altra lingua, tutto più veloce e difficile ma bellissimo. Lottavo per essere il migliore tra i migliori. Sono rimasto a Parigi fino al 2019.”
E c’è il ricordo del grande rugby a San Siro. “Il 6 Nazioni 2009 contro gli All Blacks: 80 mila persone, uno stadio pieno. Non tutti conoscevano le regole, ma fu un evento enorme per il nostro movimento. Ricordo che a 500 metri dallo stadio si ruppe il pullman: arrivammo in taxi con le borse in mano, venti minuti prima del fischio d’inizio. Altro che routine, ma alla fine andò bene.”
Sulla Haka, Parisse è netto: “Ha un impatto forte. Una volta, in Francia, ci chiesero di non guardarla: fu una mancanza di rispetto. I neozelandesi non la presero bene: quella volta ci rifilarono settanta punti.”
Quarto al mondo per numero di presenze in nazionale — 142 o 143, “non le conto” — Parisse chiude con la semplicità dei grandi: “Non ho rincorso record. Sono stato un numero 8 a modo mio, prendendomi le mie responsabilità. Ai ragazzi dico: prima di diventare grossi, imparate a capire il gioco. E prima ancora, provate tanti sport: serve a capire chi siete davvero.”