Sabato, 05 Giugno 2021 - 12:57 Comunicato 1416

Pubblico impiego: mantenere equilibrati i livelli salariali tra pubblico e privato è difficile ma necessario

Quali sono le caratteristiche specifiche del lavoro nel settore pubblico e come può essere riformato per andare incontro alle esigenze dei cittadini? La pandemia ha ridato centralità al tema del lavoro pubblico e della qualità di chi vi è impiegato. L’Italia sta lavorando ad una riforma complessiva del settore, ma il dibattito è spesso superficiale, polarizzato tra chi vede nei dipendenti pubblici un gruppo di burocrati tutelati, e chi invece rivendica stipendi migliori. La ricetta degli economisti Pietro Garibaldi e Pedro Gomes.

Il tema del lavoro pubblico è un tema cruciale, sia storicamente che in prospettiva. Ed è anche un tema molto sfaccettato, che non si presta a semplificazioni e scorciatoie. Il rischio è dunque quello di cadere nel tranello di considerarlo un molosso irriformabile, abbandonandolo in balia di opposte tifoserie. Lo ha spiegato Riccardo Salomone, docente di Diritto del lavoro all’Università di Trento, introducendo l’incontro del ciclo “Parola chiave” che il Festival dell’Economia ha dedicato oggi a tema del pubblico impiego. «Il pubblico impiego dev’essere gestito con uno sguardo di prospettiva – ha spiegato il giurista – va abbandonata la logica dell’emergenza e predisposto un progetto ragionato, altrimenti non risolveremo i problemi che abbiamo e ci troveremo inoltre tra 15 anni ad affrontare i guai causati oggi dalla fretta di tamponare».
Una prospettiva non semplice, nella quale però si sono cimentati i due economisti che hanno preso la parola questa mattina in Sala Depero. Si tratta di Pietro Garibaldi, professore di Economia presso l'Università Torino e responsabile degli studi sul lavoro della Fondazione Debenedetti; e Pedro Gomes, lettore di Economia alla Birkbeck, Università di Londra.
Il punto di partenza della loro analisi, è che il lavoro pubblico è una componente importantissima per l’economia. Lo è per quantità di impiegati: nei paesi Ocse in media il 18% dei chi lavora è lo fa nel settore pubblico; lo è per l’ingente spesa pubblica che richiede in termini di salari e strutture; lo è nel definire la qualità dell’amministrazione e l’efficienza di un paese; e lo è in termini di professioni: perché dalla giustizia, all’istruzione alla sanità, i ruoli ricoperti da funzionari pubblici sono rilevantissimi per il funzionamento di un paese.
«La pandemia – ha spiegato Pedro Gomes, che ha ricoperto incarichi anche presso la Banca Centrale Europea e la Banca d’Inghilterra – ha riportato l’attenzione sulla necessità di un pubblico impiego moderno e efficiente. Ma il panorama è molto diversificato, con percentuali di pubblici dipendenti sul totale degli impiegati che variano tra il 10% e il 30% tra i paesi».
Se i numeri totali sono molto diversi, lo sono anche i loro stipendi, che dipendono da decennali stratificazioni di necessità politiche, richieste sindacali, vincoli economici... Ciò che i due economisti osservano, è che per avviarsi ad una soluzione sarebbe buona norma allineare i salari pubblici a quelli del settore privato. Un livellamento che non è facile ottenere perché mentre i salari privati rispondono a meccanismi di domanda-offerta, quelli pubblici sono stabiliti con processi di contrattazione resi assai complessi dall’intreccio di richieste sindacali, promesse politiche e necessità di bilancio. Non solo, il salario è infatti solo una delle voci da considerare, perché a bilanciare stipendi pubblici talvolta inferiori, esistono compensazioni come la sicurezza del posto di lavoro, una pensione in prospettiva migliore, un minor numero di ore lavorate e una migliore possibilità di conciliare vita e lavoro.
Ma a conti fatti, è veramente così? I dipendenti pubblici guadagnano davvero meno dei loro colleghi privati? Non proprio o, almeno, non sempre. Pedro Gomes e Pietro Garibaldi hanno infatti osservato che spesso il problema è quello d’un mal allineamento, con i dipendenti pubblici delle posizioni inferiori che guadagnano più dei loro “pari” privati, e un rovesciamento apicale, con dirigenti pubblici pagati meno dei vertici aziendali.
Dunque, come uscirne? Pietro Garibaldi ha azzardato una ricetta: mentre la quantità dei lavoratori dev’essere scelta politica, la retribuzione che gli spetta deve essere tolta dalla disponibilità della decisione politica. «Non è una riforma che si può applicare dal giorno alla notte – chiarisce – serve un orizzonte lungo e un monitoraggio accurato di come evolve l’intera filiera salariale. Però la strada è quella: perché mentre è fondamentale che la politica continui a decidere il numero di dipendenti di cui l’amministrazione ha bisogno in tutti suoi livelli, e i settori nei quali questi dipendenti sono necessari, i livelli salariali sono stati negli anni troppo al centro di logiche politiche immediate, di campagne elettorali da vincere e via dicendo. Questo non deve più accadere».
La proposta che i due economisti hanno consegnato al pubblico del Festival è dunque quella di creare un sistema di monitoraggio dei salari pubblici e privati molto dettagliato, che consideri stipendi effettivi e benefit, che valuti le diverse regioni e provincie nelle quali si lavora, che conteggi il numero di giorni di ferie e libertà nel disporne, per “sottrarre” alle dinamiche politiche le scelte in materia di crescita salariale del pubblico impiego e creare un indicatore più oggettivo.

(us)


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