
«A partire dagli anni ‘80 – ha chiarito Silvia Pellizzari – gli appalti pubblici sono stati uno dei veicoli principali attraverso i quali sono stati esternalizzati servizi pubblici un tempo gestiti direttamente dallo Stato. Un “passo indietro” cui ne è seguito immediatamente un altro: perché l’Italia, come gli altri stati UE, ha perso la piena potestà legislativa in questa materia, a favore della normativa Europea».
Un “passaggio all’Europa” che non è stato indolore e per alcuni versi nemmeno molto positivo. Ne è convinto Francesco Decarolis, professore del Dipartimento di Economia dell’Università Bocconi, secondo il quale proprio la nuova necessità degli stati di recepire le norme europee, ha comportato un eccesso di regolamentazione divenuto oggi difficile da gestire. Non è un caso dunque se le parole più ricorrenti nell’agenda politica in materia di appalti siano diventate sbloccare, accelerare, semplificare. Ma il numero eccessivo di norme non è l’unico problema, perché anche la loro qualità avrebbe bisogno di una decisa manutenzione.
«Non basta applicare così come sono le direttive europee – spiega Decarolis – perché lo scopo principale dell’Europa era ed è quello di aprire un mercato europeo gli appalti, dove le varie imprese private potessero farsi concorrenza e contendersi le commesse. Per uno stato invece è più importante il passaggio successivo: affidare servizi a chi ha le capacità di svolgerli in modo efficiente e controllare i risultati».
Da questo punto di vista, la ricerca microeconomia ha dimostrato come alcuni vincoli europei – ad esempio quello della rotazione – finiscano per disincentivare le aziende a svolgere al loro meglio il lavoro. Il meccanismo che si viene a produrre, è infatti quello di un vincitore d’appalto che sa già in partenza di non poter partecipare all’appalto successivo, e che quindi non è incentivato a dimostrare le proprie qualità per aumentare la propria reputazione, ma piuttosto a spendere il meno possibile, tanto non toccherà comunque a lui l’appalto successivo.
Per porre rimedio a questa stortura, alcuni paesi, come Stati Uniti e Gran Bretagna, hanno introdotto un meccanismo che Francesco Decarolis propone anche per il nostro paese: il rating dei fornitori.
«Bisogna costruire gare utilizzando un criterio non molto diverso da quello che ciascuno di noi adotterebbe a casa propria se dovesse avviare una ristrutturazione: una parte del punteggio lo attribuiremmo al prezzo e una ad un indice reputazionale. Un’azienda che ha già lavorato a casa per noi e lo ha fatto bene, vanterebbe infatti un’affidabilità per la quale probabilmente sarmmo disposti anche a pagarla un po’ di più, e questa cercherebbe probabilmente di lavorare ancora bene, sperando di essere richiamata la prossima volta».
Sembra facile, ma non è così. Non solo perché il meccanismo che andrebbe messo a punto è molto delicato e necessiterebbe di successivi momenti di revisione e di adattamento, ma anche perché oggi in Italia esistono vincoli anti corruzione che di fatto ci impediscono di passare ad un simile sistema. Tuttavia – ha concluso Decarolis – le buone performance registrate nei paesi che hanno adottato questa tipologia di punteggio, e la necessità – collegata al Recovery plan – di aprire una stagione di spesa pubblica di ingente, rapida e qualitativamente elevata, possono rappresentare lo stimolo al cambiamento di cui l’Italia ha bisogno.