
Edith Bruck, pseudonimo di Edith Steinschreiber, ha trasmesso attraverso la sua arte la violenza e gli orrori subiti, ma non l'odio, con il quale ha deciso di non condividere la vita fin dai primi momenti della liberazione, tanto che non ha mai denunciato i suoi aguzzini, con la ferma volontà di incitare alla conoscenza e alla riflessione sulla tragedia della Shoah soprattutto le giovani generazioni.
Il suo racconto ha portato la platea della Filarmonica, in commosso ascolto, a ripercorrere le tappe della deportazione di Edith bambina, da quando fu prelevata con tutta la sua famiglia dalla sua casa, ai mesi trascorsi nel ghetto, al carro bestiame che la condusse ad Auschwitz, alla separazione dal fratellino e dalla madre che non ha mai più rivisto, per un gesto inspiegabile di salvezza di un nazista che le intimò di cambiare fila e di avvicinarsi alla sorella, invece di avviarla al crematorio. E poi il lavoro duro nel campo, l'orrore della morte con la quale ogni giorno conviveva, la fame "cieca, eterna", l'oblio del nome che faticava perfino a ricordare, i suoi stracci pidocchiosi buttati in un angolo il giorno della liberazione in cambio di un vestitino rosa di cotone, il ritorno ad una casa ridotta in macerie e la ricerca di una patria che sapesse ascoltarla. Tutto questo buio, però, illuminato da alcuni brevi lampi di luce, che hanno potuto dare un senso alla sua terribile esperienza, condivisa di recente con Papa Francesco, al quale ha dedicato il suo ultimo libro. "Finché avrò fiato continuerò ad andare avanti e a raccontare, a testimoniare; per oggi, per domani e per il futuro dei giovani, perché i ragazzi devono capire cosa vuol dire la solidarietà, l'accettazione, la non discriminazione. Ricevo centinaia di lettere, disegni, messaggi dai giovani e questo mi rende felice perché è un segno di speranza", ha detto Edith Bruck al termine del suo racconto.
Fotoservizio e filmato a cura dell'ufficio Stampa
Download delle immagini qui: https://bit.ly/3IZ104C