
Si scrive kamikaze ma si legge, e traduce, Kevin Schwantz. Tanto pilota quanto acrobata. Tanto irruento quanto spettacolare. Campione del Mondo 500cc del 1993, la classe regina nell’era che precede la MotoGP, a cui accede direttamente, senza passare a farsi le ossa nelle classi cadette. Lui che di ossa rotte, però, ne ha una lunga serie: la sua avventura nella velocità inizia proprio da lì. Da un infortunio tanto grave da imporgli l’abbandono del motocross, la disciplina che più sua non poteva essere. Tanto che si dice che se la sia portata anche sull’asfalto.
Tanto che sul palco gli recapitano un Allegro Chirurgo (gioco da tavola famosissimo anche negli USA) modificato: sul viso una foto di Kevin. Sul corpo tutte le parti che sono state vittime del suo lavoro. “Non c’è una parte che possa toccare senza che suoni! E molte mi fanno ancora male, oggi…” Come quel polso. A cui affiderà il motivo del ritiro dal circo a due ruote.
Per lui cresciuto a pane e moto, nella concessionaria del padre e in una famiglia di piloti, professionisti, il padre e il fratello. Fino all’allora 500cc e il successo più grande, nel 1993 quando arriva il titolo mondiale. Ma anche il titolo di kamikaze. Perché, cosa aveva di speciale, di unico? “Non ne ho idea – racconta - Credo che i miei fan siano tali perché ho sempre dato il 100% e a volte andavo oltre. Cercavo di vincere fino all’ultimo giro, Non mi sono mai risparmiato. E anche i piazzamenti mi sono serviti, in una carriera non lunghissima. Iniziato nel 1984 e ritirato nel 1995.” Tra alti e bassi. Cadute e ritorni in sella. E le staccate, quelle che sono diventate negli anni il suo marchio.
26 maggio 1991 Hockenheim: la staccata e il sorpasso su Wayne Rainey. Una sequenza leggendaria che scorre sul grande schermo del teatro e mette ancora i brividi. Un gioco di prestigio, una magia, un colpo di genio. Come nasce questo momento? “Dalla volontà e dalla determinazione di vincere. Sapevo che Wayne poteva avere la meglio ed è per quello che ho mantenuto la traiettoria destra. Se mi avesse sorpassato avrebbe vinto lui. Quando mi ha affiancato era disorientato, non pensava di trovarmi lì. Ha frenato un secondo o quasi prima di me; ho dovuto spostarmi per non centrarlo e così riprendere il controllo della moto. Anche dopo anni di gare è sempre difficile sapere cosa fare in certi momenti.” Vista oggi si può dire fosse la cosa più giusta da fare tra le più sbagliate.
Wayne Rainey il rivale “all’inizio ci odiavamo! Era una battaglia in pista e non ci parlavamo fuori. Ma poi, scontrandoci sull’asfalto, senza mai toccarci, abbiamo iniziato a rispettarci. È nata un’amicizia. Il suo incidente è stato difficile da accettare. Oggi posso dire che abbia abbreviato la mia carriera. Non trovarlo più tra i cordoli, non potermi confrontare con lui che dava misura della mia preparazione… senza lui e le nostre sfide molto non aveva più senso.”
Un incidente in cui Rainey perse l’uso degli arti inferiori, nel 1993, che rese un po’ amaro quel titolo e difficile la stagione successiva. Con un polso lussato e la motivazione ormai persa. La paura? “Prima non avevo paura di niente! Adoravo le corse sotto la pioggia e nulla mi poteva fermare. Quando l’ho sentita arrivare, ho smesso.” Ma c’è stato un momento preciso? “Sì. In gara. Dopo un sorpasso di Loris Capirossi che si è voltato per scusarsi e poi una caduta. Mi ero distratto? No, la verità è che non ero più concentrato. Al rientro, sul mio volo c’era Wayne. Mi ha chiesto cosa stesse succedendo alla mia guida. E quel suo 'fermati' mi ha fatto pensare. Prendere tempo per capire. Ed ho pensato. Deciso. Agito. Lasciato nel momento in cui non potevo fare altro.”
Per trovare quel sorriso che tutti, da sempre, conoscono. “Ogni volta che infilavo il casco mi scappava sempre un sorriso” è la sua frase preferita. E la più vera. Perché ancora oggi ci sono padri che raccontano ai figli di quel pilota kamikaze, con una grandissima voglia di divertirsi sull’asfalto. Gas e follia. E molti sorrisi.