In apertura della seconda parte del pomeriggio con cui ha preso il via il Festival della Famiglia 2019, dopo l'intervento del ministro Elena Bonetti, il professor Alessandro Rosina, docente alla cattolica di Milano, ha presentato un quadro esemplificativo e impressionante del crollo demografico conosciuto dall’Italia dalla seconda metà degli anni 70 in poi. In poco tempo l’Italia è diventato il paese con il più basso tasso di fecondità al mondo, attualmente 440.000 nascite (nel 2018). C’è stato, in effetti, un timido tentativo di ripresa, nei primi anni 2000, trainato dalle regioni del Nord, ma poi la crisi ha portato nuovamente la curva demografica a “picchiare” verso il basso. Tutte le previsioni dicono che l’Italia è destinata a non crescere neanche in futuro.
A livello mondiale la popolazione si sta stabilizzando. A crescere molto è soprattutto l’Africa. Fra i paesi più sviluppati, si possono distinguere tre tendenze: ci sono paesi che sono scesi poco sotto la soglia di due figli per donna, ma con squilibri complessivamente ridotti (Francia); paesi che come l’Italia sono scesi molto sotto questa soglia ma sono poi risaliti (Germania); infine, nel terzo gruppo, l’Italia, con un tasso inferiore a 1,5 figli, che non è più risalita. L’Italia è anche uno dei paesi in cui la nascita del primo figlio e maggiormente ritardata (31,5 anni, età alla quale in Francia solitamente si pianifica il secondo figlio). La percentuale di donne senza figli è pari al 22%. Complessivamente quindi il nostro paese è quello che contribuisce di più al crollo demografico in Europa.
Attualmente solo l’Alto Adige in Italia si spinge oltre 1,6% figli per donna. Ci sono differenziazioni interessanti anche fra territori vicini; se Milano continua a “decrescere”, Bergamo invece è in controtendenza, con una crescita progressiva della curva demografica. Ma in generale, cosa manca soprattutto al nostro paese? Misure che favoriscano l’autonomia dei figli (lavoro stabile, accesso alla casa e così via); servizi per l’infanzia; sostegno economico alle coppie con figli. Ma oltre alle carenze relative alle politiche della natalità, pesa in Italia anche un clima culturale orientato al pessimismo o comunque al ridimensionamento delle aspettative che le persone nutrono riguardo al futuro e ai figli desiderati (clima culturale più “pesante” nelle classi medio-basse).
Chiara Ludovica Comolli, dell’Università di Losanna, ha contribuito a contestualizzare ulteriormente il caso italiano nel quadro europeo. Negli anni 90 si era delineato uno scenario duale, con i paesi del Nord dell’Europa più prolifici e quelli del Centro-Sud (Austria, Germania, paesi dell’Est, Spagna e Italia) con una flessione della fecondità più importante. Dopo la crisi internazionale la situazione si è diversificata: alcuni paesi del Nord hanno iniziato a declinare, mentre altri appartenenti al gruppo dei “meno fecondi” ha reagito e in qualche caso è riuscito a riprendersi, almeno in parte.
La spiegazione generale della denatalità è legata al peggioramento delle condizioni economiche. Ma ci sono anche delle cause meno “tangibili”, legate alle aspettative, negative, sul futuro lavorativo, sugli esiti delle politiche sviluppate nei vari paesi per favorire la natalità, persino sull’andamento dello spread. La crisi ha generato quindi effetti di lungo periodo che prescindono dal fatto che in qualche caso la ripresa post-crisi in effetti si sia verificata. Non solo: la crisi della natalità investe oggi anche i paesi nordici, che pure sono stati toccati meno dalla crisi del 2008. Esistono infine casi virtuosi, come quello della Germania. Un cambio di indirizzo nelle politiche familiari può fare la differenza.
Il pomeriggio è proseguito con una tavola rotonda, moderata dal giornalista Alberto Faustini, a cui hanno partecipato Regina Maroncelli, presidente dell'Associazione europea della Famiglie numerose, Manuela d'Alessandro, responsabile Unicef per i programma Comunità, Ospedali e Scuole "Amici dei Bambini", e Silvia Piani, assessore alle politiche per la famiglia e pari opportunità della Regione Lombardia. Fra i vari temi emersi, la difficoltà di parlare a volte di politiche in favore della famiglia, specie con riferimento alle misure – efficaci - adottate da paesi come l’Ungheria, in odore di sovranismo. Il tema insomma si presta ad una eccessiva caratterizzazione ideologica. Eppure le politiche per il sostegno alle famiglie sono importanti, ed è importante che, come in Trentino, sia un intero territorio a qualificarsi come “family-friendly”. L’Ungheria investe il 4,5 del pil per la famiglia, la Polonia segue dappresso. Soldi che peraltro tornano in circolo, e fanno crescere l’economia. L’Italia è su un 1% scarso. In quanto al Trentino, rappresenta un modello che funziona e dal quale anche regioni come la Lombardia, molto diverse per dimensioni, possono trarre ispirazioni, pur con opportuni adattamenti. Oltre al sostegno alle famiglie, i sistemi territoriali devono accogliere la sfida della conciliazione vita-lavoro e del rientro al lavoro delle donne dopo la maternità (cosa che implica anche politiche efficaci sul versante dei nidi d’infanzia).
Le conclusioni quindi del presidente della Provincia, Maurizio Fugatti.
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