
La conversazione è cominciata con l’apertura di una prima scatola contenente la maglia della Fiorentina, la squadra dell’esordio in Serie A. Prima ancora del debutto, Bernardeschi ha ricordato un momento difficile quando a 16 anni fu fermato per sei mesi a causa di un sospetto problema cardiaco. “Mi vietarono non solo di giocare, ma di fare qualsiasi attività. Avevo intravisto la luce e venivo fermato”. Solo in seguito si capì che era legato a una crescita fisica rapida, che aveva alterato i parametri medici. Quel timore precoce di vedere un sogno svanire lo ha reso più consapevole della fragilità e della forza necessaria per inseguire i propri obiettivi. Nel mondo viola ha intrecciato il ricordo più intenso con quello di Davide Astori. “Era una persona speciale. Si prendeva cura di me, mi consigliava”. Non ha parlato solo di un compagno di squadra, ma di una presenza affettuosa e costante che manca con parole misurate ma profondamente autentiche di chi conserva gratitudine e affetto intatti.
È tornato poi sul peso e sull’orgoglio della maglia numero 10 viola, simbolo di responsabilità e ambizione. La scelse lui, a Moena, durante il ritiro. “Volevo vedere la reazione del mister”. La scena è rimasta impressa: il foglio dei numeri, i compagni che osservano, Paulo Sousa che lo convoca il giorno dopo. “Mi disse: se hai avuto la personalità di scrivere quel numero, hai quella per portarlo”. Fu un’investitura e insieme una sfida.
Con la seconda maglia si è parlato poi del trasferimento alla Juventus. “Sapevo che molti si sarebbero sentiti traditi. Per un ragazzo di 23 anni non era facile capire davvero le conseguenze”. Ha raccontato l’amarezza, le critiche e anche la sofferenza personale: “A distanza di dieci anni dico che Firenze resta nel mio cuore ed è stata una tappa fondamentale per la persona che sono diventato”. Alla Juve non vestì il 10 e Bernardeschi l’ha definita “una protezione della società. Scelsi il 33, per motivi religiosi, sono molto credente”. In quegli anni esplose anche l’attenzione sul suo look e sulla sua libertà di espressione. “Non mi sento controcorrente, mi sento un essere umano giusto. Ognuno deve essere libero di essere se stesso. Oggi più che mai servono giovani che si espongano, che pensino con la loro testa”.
Tra i ricordi bianconeri ha scelto il più iconico: Juventus–Atletico Madrid del marzo 2019, “Una partita perfetta, mia e della squadra. Sembrava l’anno giusto per vincere la Champions”. Ha sottolineato l’energia dello stadio, l’unità del gruppo, la consapevolezza di essere al centro di qualcosa di irripetibile. Poi la parentesi su Cristiano Ronaldo, descritta senza retorica: “Una persona straordinaria, di un’umiltà pazzesca che vive in funzione del suo lavoro”. Ha raccontato la disciplina quotidiana, la cura dei dettagli, l’attenzione silenziosa verso i compagni. “Ha cambiato il calcio. Chi lo ha conosciuto da vicino non può parlarne che bene”.
Il videomessaggio di Giorgio Chiellini ha introdotto l’uscita della maglia della Nazionale. Bernardeschi lo ha chiamato “fratello maggiore”. Poi ha rievocato il momento del calcio di rigore dell’Europeo: la camminata verso il dischetto, le gambe che tremano, i pensieri che si accavallano. “Quando ho appoggiato il pallone a terra, si è fermato tutto. Ha parlato con orgoglio di un gruppo forse poco creduto all’inizio e capace di sorprendere tutta Europa. “Dispiace non aver potuto continuare quel percorso. Ci si dimentica troppo in fretta di cosa abbiamo fatto”.
Subito dopo, il video di Federico Chiesa, “il fratello minore”. “Gli voglio bene come a un fratello vero. Con lui ho agito con il cuore aperto”. Ha ricordato il peso del cognome, le aspettative, e la sua volontà di proteggerlo: “Doveva poter essere Federico e non solo il figlio di Enrico”.
Altra maglia è stata quella del Toronto FC. “Esperienza che rifarei cento volte”. Ha spiegato quanto spostarsi all’estero lo abbia costretto a rimettersi in discussione e a maturare. “Quando esci dalla comfort zone cresci per forza. Ha raccontato l’accoglienza ricevuta anche dalla grande comunità italiana, l'entusiasmo dei tifosi e la soddisfazione personale: “È andata in modo sorprendente, l’ho surfata tutta”.
La chiusura è stata dedicata al presente, con la maglia del Bologna. “Sono tornato perché avevo voglia di rimettermi in gioco. Qualcuno pensava che fosse finita, invece volevo sentirmi vivo”. Ha riconosciuto la solidità della società, l’ambizione del progetto e il carattere dell’allenatore. “Ho trovato un ambiente che mi ha accolto e responsabilità alte, come piace a me. Più lavoro, più mi sento bene. Sono felice di essere tornato, questa è la verità”.