Sabato, 01 Giugno 2019 - 13:36 Comunicato 1280

Alla Facoltà di Giurisprudenza il Festival dell’Economia ha visto la lezione del direttore dell’European Union Program della Princeton University
Moravcsik: “Le politiche estere dei partiti populisti? Semplicemente irrealizzabili”

Slogan semplici, su temi altrettanto semplici, destinati ad un pubblico che chiede risposte semplici anche se irrealizzabili. Andrew Moravcsik, professore di Scienze politiche e direttore di dell’European Union Program della Princeton University, non ha dubbi sulla natura e sul destino delle politiche estere dei partiti populistici democratici, che giudica “insostenibili”. A sostegno delle proprie tesi, Moravcsik porta tre esempi eclatanti: le politiche di Trump contro la Corea del Nord (“Molto clamore ma le misure sono le stesse delle amministrazioni precedenti”) e contro il Messico (“Minaccia nuovi dazi se il flusso dei migranti non calerà”), e la Brexit (“Il primo ministro May si è dimessa per non essere riuscita a portare a casa un accordo favorevole al Regno Unito”). Insomma, per usare sempre le parole di Moravcsik, i populisti in politica estera “abbaiano ma non mordono”.

Il populismo è l’argomento del momento, perché molti Stati democratici sono governati o registrano una forte presenza dei partiti populisti o partiti nazionalisti di destra: Polonia con Jaroslaw Kaczynski, Italia con Matteo Salvini, la Francia con Marine Le Pen, l’Ungheria con Viktor Orban e, ultimo ma non per importanza, gli Stati Uniti con Donald Trump. Il docente di Princeton non comprende la Russia di Vladimir Putin e la Turchia di Recep Erdogan, che non considera sistemi basati sulla democrazia.
Moravcsik spiega il consenso dei partiti populisti o nazionalisti su  larghe fette di elettorato: “In campagna elettorale e nell’attività politica fanno largo uso della retorica popolare. Usano slogan semplici per individuare problemi o obiettivi semplici, sapendo di poter contare su un pubblico che difficilmente andrà a loro chiedere quali delle promesse in Poltica estera sono state raggiunte”. 
Una volta al governo - è questa la testi del relatore - gli stessi politici populisti si rendono conto che l’uscita dell’Unione europea o dall’euro, piuttosto che dalla Nato, non sono opzioni possibili perché la realtà è molto più complessa e gli interessi nazionali in gioco sono trasversali: “E’ ineludibile che in un simile contesto, i partiti populisti non riescano ad implementare in azioni concrete le loro promesse che nel frattempo sono diventate insostenibili oltre che irrealizzabili. Insomma, abbaiano ma non mordono”. 
L’esempio più eccitante è la Brexit, costata al primo ministro inglese May due anni di estenuanti trattative con la Ue e di sfiancante dibattito interno. “Theresa May si è dimessa, sfiduciata da coloro con cui aveva condiviso una scelta tanto semplice quanto complessa: uscire dalla Ue per ridare la sovranità al Regno Unito. La situazione è sfuggita di mano e in futuro il Regno Unito potrà anche essere fuori dall’Europa ma le loro politiche saranno le stesse”. Con un dettaglio non proprio trascurabile: l’uscita dall’Europa costringere il Regno Unito a rinegoziare migliaia di accordi e milioni di norme con tutti i Paesi del mondo. Ad oggi l’agenda inglese prevede solo dieci accordi da rivedere. Ancora Moravcsik: “La forza contrattuale di una nazionale è data dal Pil. Rispetto all’Europa, il Regno Unito non è così forte. Insomma - aggiunge - assistiamo alla sindrome di Hotel California degli Eagles, puoi fare il check-out ma non puoi andartene”. 
Il tema dei migranti è il vero, grande tema affrontato dai populisti. “Se andiamo a guardare le misure prese - documenta - i limiti e le quote sono le stesse di altri Paesi europei o addirittura delle amministrazioni precedenti. La dottrina della politica estera populista prevede quindi che una volta al governo, il leader populisti concedano una serie di incentivi ai propri elettori e applichino le politiche precedenti”. 
Le leve del consenso populista sono quattro: obiettivi semplici ed intuitivi, incentrati su obiettivi comuni alla nazione (identità e interesse nazionale, ad esempio); negoziati internazionali conflittuali e a vantaggio di una sola delle parti; soluzioni semplici a problema semplice (ad esempio, uscire dalla Ue o dalla Nato per riappropriarsi della sovranità nazionale); soluzioni semplici per un elettore semplice. “Marine Le Pen - sottolinea Moravcsik - usa una retorica più sofistica, secondo cui i veri valori del sistemi internazionali, non sono i valori universali e i diritti umani, ma le cultura dei singoli stati. Aumentare del 50% le spese militari significa per Le Pen riuscire a difendere gli interessi francesi in tutto il mondo. Il risultato però non cambia: nel 2016 si diceva favorevole all’uscita dall’euro, nel 2017 era più incerta e nel 2019 ha dichiarato che la Francia non uscirà dall’Europa”. 
E proprio la fragilità delle politiche europee - secondo Moravcsik - è la causa che ha impedito ai populisti di far parte del governo europeo o di incidere realmente sul destino del Vecchio Continente: “I populisti non sono una grande maggioranza, ad eccezione dell’Ungheria (Orban non vuole uscire dalla Nato ne dall’Europa) e dell’Italia. In generale, il voto europeo non li ha visto crescere, considerato che gli euroscettici erano in gran parte elettori britannici. E dove sono al Governo, vedi l’Austria, chiedono alcuni ruoli, lasciando ai partner la politica estera”. 
Per quale motivo, dunque, i populisti hanno una grande eco e, di conseguenza, una forte presa sul “popolo”? Anche qui, Moravcsik sembra avere le idee chiare: “Nessuno ha interesse a dire che i populisti non andranno da nessuno parte. Le opposizioni non fanno nulla per svelare quello che i populisti non riescono a mantenere in termini di promesse elettorali. Inoltre, i giornalisti saltano dentro a piedi pari a queste storie perché fanno vendere e aumentano l’audience. Così come i miei colleghi accademici li vedono più come una sfida che un fenomeno da analizzare e studiare”.

(pff)


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