
L'analisi di Piero Stanig, che ha toccato corsi e ricorsi storici, ha preso le mosse dalle diverse ondate di globalizzazione come la penultima tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX. Una fase, iniziata 1860, di scambi e di prosperità fatta di accordi e di diminuzione dei dazi fra nazioni, aiutata anche dall'invenzione del telegrafo. Ma la reazione a quel processo portò ben presto al protezionismo, a barriere commerciali, all'autarchia e a processi di chiusura che sfociarono nella tragedia della Prima Guerra Mondiale. Uno schema che rischia di riproporsi in maniera drammatica anche nel nostro presente: "Se due economie diverse incominciano a commerciare fra loro - ha sottolineato Stanig - valorizzano reciprocamente i loro settori migliori, ma quelli più deboli di fatto implodono. Per fare in modo che il libero commercio porti ad un miglioramento paritetico è necessaria quindi quella che possiamo definire come "compensazione dei perdenti". Una compensazione alla quale dovrebbero rispondere i singoli governi ma che di fatto non c'è stata, anche a causa delle crisi del debito del 2008, causando un crescente malcontento nelle classi medie".
Per l'opinione pubblica la globalizzazione non è solo commercio ma anche movimento di persone e consumi culturali: fenomeni che per molti sono sinonimo di minaccia della propria identità e la conseguenze portano a spinte nazionalista e protezionista con la chiusura dei confini. "Nessun Paese – ha evidenziato il politologo – è stato capace di avviare strumenti di compensazione realmente efficaci e la reazione ostile della gente non è stata solo verso i singoli governanti ma anche nei confronti del sistema democratico in generale". In questo contesto si inserisce il processo dei movimenti di capitale con la difficoltà sempre maggiore di tassare i profitti delle multinazionali: "Il 40% di questi – ha detto Piero Stanig - va in paradisi fiscali e chi ci rimette di più sono proprio i Paesi dell'Unione Europea costretti di conseguenza ad aumentare il peso della tassazione sul lavoro creando ulteriori malumori". Un pericoloso circolo vizioso quindi che spesso porta a quel nazionalismo economico foriero di protezionismo, bassa tassazione, sul modello di Trump negli Stati Uniti o della flat tax, accompagnati in molti casi anche da una forte retorica nazionalista.