«Il tasso di occupazione femminile è da sempre un problema strutturale del nostro Paese – afferma Linda Laura Sabbadini, direttrice dell’Istat – dopo un momento positivo, nella seconda metà degli anni ‘90, infatti, la crescita si è interrotta a ridosso della prima crisi, quella del 2008. Negli undici anni successivi, le donne occupate sono aumentate di 500mila unità, raggiungendo il 50,1%, un fattore che sembra positivo, ma che delinea un recupero lento e misero, soprattutto a confronto di Paesi come la Germania e il Regno Unito, che raggiungevano il 70%. Il Covid, poi – continua – ci ha fatto fare un ulteriore passo indietro, facendoci tornare al 48,2%, e posizionandoci penultimi in Europa (ma ultimi per l’occupazione tra le donne tra i 25 e i 34 anni)».
Del resto, approfondisce Paola Profeta, docente di Scienza delle finanze all’Università Bocconi di Milano: «Il Covid ha colpito settori diversi rispetto ad altre crisi, quelli tradizionalmente più legati all’impiego femminile. Ma un altro fattore di cui tenere conto è stato l’aumento del carico di cura che la pandemia ha comportato per le donne».
Se adesso quindi l’Europa ci chiede di accelerare il passo sulle politiche inclusive, il Pnrr sarà una risposta efficace in tale direzione? «No, è chiaro che la parità di genere non è affatto un obiettivo primario – sostiene Sabbadini – il 57% dei fondi, infatti, andranno a settori che produrranno occupazione maschile e, in tal senso, non è stato fatto alcuna valutazione d’impatto di genere, così come, del resto, non sono stati imposti vincoli da parte dell’Europa che andassero in direzione dell’approccio di genere. Si sarebbero dovute valorizzare le infrastrutture sociali – prosegue – i servizi educativi per l’infanzia (a cui sono stati affidati solo 3,6 miliardi), l’assistenza, l’imprenditoria femminile (a cui spetteranno 400 milioni)». Spesso, continua Profeta, «si dà la colpa all’assenza di risorse, quando il problema è la mancanza di piani strategici mirati. Pensiamo ad esempio a come le misure fiscali potrebbero favorire l’impiego femminile, ma in Italia lo sfavoriscono, incentivando a ritardare il rientro dopo la maternità o ad abbandonare il lavoro in nome dei sussidi».
Grande questione è poi anche quella delle posizioni lavorative: «Le donne possono apportare un valore aggiunto all’economia – aggiunge ancora la docente della Bocconi – si stima ad esempio che con una presenza paritaria nel mondo del lavoro il Pil italiano crescerebbe di 11 volte. Ma avremmo anche maggiore qualità della selezione, trovandoci di fronte ad una platea professionalizzata più ampia. E ancora, con una leadership bilanciata (anche in politica) avremmo un Paese più efficace. Alcuni studi – conclude – dimostrano per esempio come i Paesi guidati da donne in tempo di pandemia abbiano avuto maggiore attenzione sul tema della chiusura delle scuole, ma anche migliori risultati in tema di comunicazione e trasparenza».
“Il Pnrr non darà reale spazio alla parità di genere”
Se nell’ultimo decennio l’Italia ha fatto da fanalino di coda europeo, in termini di occupazione femminile (50,1%), con la pandemia il divario non ha fatto che accrescersi (48,2%). A rispondere al problema, i 240 miliardi stanziati dall’Europa e quel Pnrr su cui si ripongono tante speranze. Eppure, per Linda Laura Sabbadini e Paola Profeta, non si tratta che di un’illusione. «Sono minime, le risorse investite a proposito – commenta infatti la direttrice dell’Istat -: parliamo di 3,6 miliardi per i servizi educativi per l’infanzia e appena 400 milioni per l’imprenditoria femminile». Una «locazione residuale – come la definisce la docente della Bocconi oggi al Festival dell'Economia – che non tiene affatto conto degli impatti che avrebbe un maggiore ingresso di donne nel mondo del lavoro, uno su tutti l’aumento del Pil».