Sabato, 04 Giugno 2016 - 20:26 Comunicato 1216

Costruire le città africane

Stando ad alcuni studi la popolazione urbana delle città africana ha superato quello della popolazione rurale. Un fenomeno da studiare, certamente. Le grandi città sono spesso assediate da baraccopoli, da slum, da comunità che sviluppano una vita propria e delle dinamiche eccezionalmente autonome, quasi fossero una città all’interno di una città. Eppure queste zone marginali, ma consistenti delle grandi megalopoli africane sono praticamente impossibili da governare: per il numero di abitanti, per come si sono sviluppate, per come crescono. E per come continuano a crescere. Ed anche perché entrano in gioco forti motivazioni politiche ed economiche.

Ne ha parlato oggi Vernon Henderso, attualmente professore universitario in Geografia economica della London School of Economics, nell'incontro moderato dal giornalista Raffaele Masto. La sua attività di ricerca riguarda principalmente l’urbanizzazione nei paesi in via di sviluppo, in temi come urbanizzazione, mercati fondiari, investimenti nelle infrastrutture, corruzione, erogazione degli aiuti in caso di calamità, migrazione e cambiamento climatico.

Nella sua esposizione il professore ha fatto riferimento anche al collegamento che esiste tra città, comunità marginali e fattori di cambiamento climatico. Nel senso che molte di queste zone rischiano di essere inondate, e quindi necessitano di una urgente riqualificazione, se non addirittura di uno spostamento, Emblematico è il caso, ad esempio, di New Orleans, costantemente sotto l’ira dei cicloni, o dei Paesi Bassi, sempre in lotta con il mare. Per queste due città il sapersi adattare, reinventare gli spazi urbani, riqualificarsi è una questione di sopravvivenza.

Diverso è il caso per i paesi in via di sviluppo, come nel caso di quelli africani, dove non vi sono i soldi né la tecnologia per investire in ciò.

Come fare allora? Si consideri che nell’ultima parte del secolo scorso lo spostamento delle popolazioni rurali verso le aree urbane è stato veramente massiccio. Il 40% degli abitanti delle città dei Paesi in via di sviluppo, milioni di uomini, donne, bambini, sono così andati ad affollare slum e baracche o semplicemente a dormire in strada. È questo un fenomeno più che mai preoccupante e sociale, in continua evoluzione, che apre scenari e discussioni che riguardano il profilo economico, ma anche politico, religioso e sociologico.

Ma in che modo poter sviluppare una edilizia abitativa sostenibile e low cost, destinata prevalentemente ad abitanti di paesi in via di sviluppo completamente indigenti?

Un altro grosso problema è quello della titolarità del diritto di proprietà. Di chi sono le case nelle baraccopoli? Di chi è il territorio? In molti casi, sono gli stessi amministratori locali ad essere titolari del terreno, che in passato gli è stato venduto con pratiche corrotte e fraudolente. Ovvio, quindi, che gli stessi non hanno alcuna intenzione a mettere mano al miglioramento economico e sociale delle baraccopoli delle città e degli insediamenti abusivi, in quanto rappresenta un forte introito monetario. Altri casi, invece, dove sono state portate avanti politiche di nuova edilizia popolare, si sono rivelati un fallimento, in quanto non sono stati tenuti in considerazione fattori sociali e psicologici delle persone “costrette” a cambiare casa, che quindi non si sono mai adattati completamente a nuove situazioni. Perché se è pur vero che nelle baraccopoli nessuno vorrebbe viverci, è anche vero che chi vi è nato fa fatica a concepire anche solo una opportunità differente, se non a fronte di interventi strutturati. Certo è che la costruzione di nuove forme di alloggi decorosi, qualunque siano le modalità, rappresenta un passo importante sul cammino della democrazia partecipata per i paesi in via di sviluppo e i loro abitanti. Soggetti un tempo marginalizzati potrebbero allacciare legami tangibili e durevoli con la società tradizionale, con una conseguente concreta riduzione dei tassi di povertà assoluta.

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