
La sua leadership sul parquet è sempre stata evidente: “Sin da piccolo i miei allenatori mi hanno insegnato a prendermi delle responsabilità- ha spiegato Davis - . Fortunatamente ero dotato di buone doti fisiche e tecniche, poi ho cercato sempre di apprendere un po’ da tutti sia dai compagni di squadra che dagli avversari. Per diventare una point guard efficace devi conoscere a memoria il gioco, capire al volo le varie situazioni e agire prima di chi ti trovi di fronte”.
Ai Charlotte Hornets è arrivata la sua consacrazione. “Eravamo tutti spinti da una fortissima voglia di fare bene, il gruppo è rimasto più o meno lo stesso per tutti e tre gli anni (1999 - 2002) anche grazie a loro sono stato convocato agli All Star Games, un traguardo che ogni giocatore dell’Nba spera di riuscire a tagliare”. Quello stesso anno arrivò però anche la brutta esperienza con la nazionale: “Pensavamo di essere di gran lunga i migliori e invece ci siamo resi conto che il basket europeo esprimeva valori altissimi. Ricordo quando affrontammo l’Argentina di Manuel Ginobili, la superammo di poco ma con grande fatica. Il match dopo, contro la Jugoslavia, invece ci vide eliminati e da quel momento negli Stati Uniti cominciammo a giocare in modo diverso”.
Da Charlotte il trasferimento a New Orleans: “Città meravigliosa ma piena di tentazioni - ha ricordato l’atleta californiano - . Non è stato facile ambientarsi e neppure convincere la gente a venire al palazzetto, lì a farla da padrone è il football, senza contate che ogni fine settimana ci sono ovunque feste, eventi e concerti”. La seconda chiamata per gli All Star Games è stato il momento più bello della carriera di Davis: “Si giocava proprio a casa mia, a Los Angeles. Ho comprato tantissimi biglietti per gli amici, dopo la partita alla festa c’erano vip com Puff Daddy, Beyoncé e Halle Berry insieme alle persone con le quali sono cresciuto. È stato l’attimo in cui la mia vita personale e professionale si sono unite meravigliosamente”.
A San Francisco la point guard è invece riuscita a riportare i Golden State Warriors ai play off dopo 17 anni: “Quando sono arrivato si respirava un clima da funerale, davvero sembrava fosse morto qualcuno. Ho cercato di infondere ottimismo, far capire che solo divertendoci avremmo potuto invertire la tendenza. Non è stato facile ma si è creato un gran gruppo dentro e fuori dal campo”.