Venerdì, 04 Giugno 2021 - 21:24 Comunicato 1403

Azioni positive per superare le barriere

L’economista David Card, nella sua Alan Krueger lecture, ha discusso dei pro e dei contro dei programmi di azione positiva nel contrastare la discriminazione di genere, etnica e razziale. L’incontro, condotto da Tito Boeri, si è focalizzato sull’esempio degli Stati Uniti d’America portando due casi specifici dove le "affirmative actions" hanno avuto riscontro positivo e incoraggiante. Ovvero l’’ammissione a college altamente selettivi e la scelta dei riconoscimenti da parte delle associazioni professionali. In entrambi i casi, le azioni dirette di incentivo e di inclusione, hanno portato immediati benefici in termini di rappresentatività di genere.

L’azione positiva (ad esempio attraverso l’introduzione di quote rosa) viene utilizzata quando si vuole aumentare l'omogeneità di un determinato gruppo sociale. Per esempio quando si vuole favorire la partecipazione di gruppi sotto rappresentati, come nel caso delle donne o di minoranze, in settori specifici. A conferma di un modello che possa rivelare il meccanismo incentivante e duraturo nel tempo dell'impiego di azioni positive (dati alla mano), il professore David Card, che insegna Economia all’Università della California, Berkeley (ed è anche Direttore, del programma di studi sul lavoro presso l’NBER) ha citato gli Stati Uniti, dove il problema dell’eguaglianza fu posto più tardi rispetto agli Stati europei, ma dove furono introdotti strumenti giuridici e soluzioni, in seguito divenuti modello per molti altri ordinamenti.

In principio le affirmative actions vengono introdotte negli Stati Uniti a partire dagli anni ’60 per superare la segregazione razziale e i pregiudizi nei confronti degli afroamericani che permanevano nella società anche in seguito all'abolizione della schiavitù. Fin dall’inizio entrano gioco come misure speciali, disposte per forzare una situazione di diseguaglianza fortemente radicata a livello sociale, culturale ed economico, alla quale non è possibile rimediare con gli strumenti ordinari.

Ma quali sono le evidenze di un effetto persistente di queste politiche nel lungo termine? Stando alle linee della giurisprudenza ed alla stessa opinione pubblica americana, il rischio più frequente è che una politica di favore possa accentuare il senso di inferiorità della categoria protetta. Infatti, senza misure protettive, i singoli dovrebbero sentirsi più stimolati a superare la condizione di svantaggio, raggiungendo una effettiva parità. E se questo ragionamento è disincentivante nell'impiego di azioni positive nei confronti delle minoranze di colore, ciò non è del tutto vero nei confronti di una maggiore rappresentatività delle donne in ambiti professionali (per esempio le quote rosa imposte per legge in consigli di amministrazione o altre cariche di alto livello, così come nella politica). In questo caso le azioni positive servono a superare una barriera di pregiudizi e di ostacoli culturali che impediscono a donne che ne abbiano la capacità di svolgere determinate funzioni.

Bisogna però tenere presente che si tratta di azioni provvisorie finché vi è il superamento di quel muro culturale, e che diventano superflue quando la società arriva ad accettare l’effettiva parità tra uomini e donne, sul fronte delle professioni e degli impieghi o altre attività per le quali hanno le conoscenze e le capacità adeguate. Le azioni positive sono dunque necessarie quando occorre imprimere un’efficacia immediata e diretta alla politica di parità, e fino a quando le misure ordinarie si rivelano insufficienti.  

Da sole, però, non bastano. Perché non possono sostituire le misure antidiscriminatorie e le misure di politica economico-sociale. Esse possono tuttavia accelerare gli effetti di una politica di parità, abituando donne e uomini ad un cambiamento culturale effettivo.

(sg)


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