RICERCAZIONE - vol. 9 n° 1
June 2017

copertina Ricercazione vol 9 n. 1

Six-monthly Journal on Learning Research and Innovation in Education

Sommario

Le competenze non cognitive, un costrutto in divenire
EDITORIALE di Francesco Pisanu, Direttore dell’Ufficio per la Valutazione delle Politiche Scolastiche, Provincia Autonoma di Trento

Negli ultimi decenni si è sviluppato un dibattito interdisciplinare sulla possibilità di considerare altre tipologie di caratteristiche individuali, oltre alle tradizionali di natura “accademica” e cognitiva, per spiegare il successo formativo e, più in generale, l’acquisizione dello status di cittadino adulto, responsabile e attivo partecipante nella vita quotidiana. Tale dibattito non è nuovo e può essere fatto risalire ai primi tentativi di identifi care una struttura multifattoriale dell’intelligenza (Thurstone, 1938; Guilford, 1967), e successivamente all’emergere di nuove teorie multidimensionali sull’intelligenza (Gardner, 1983; Sternberg, 1985), e di maggiore considerazione di aspetti non “accademici”, o strettamente cognitivi, legati al comportamento “intelligente”, nei vari contesti della vita quotidiana tra cui quello educativo, come le intelligenze sociali, emotive e sistemiche (Goleman & Senge, 2014). Attualmente, soprattutto nel contesto statunitense, l’interesse è rivolto alle cosiddette “non-cognitive skills” (West et al., 2016). Non esiste una definizione univoca di tali competenze, ma in genere gli ambiti a cui si fa riferimento, nella sfera individuale, sono quelli emotivi, psico-sociali e legati alle caratteristiche di personalità. Nel dibattito attuale tali competenze vengono considerate strategiche, in un’ottica evolutiva, per i percorsi di carriera (formativi e lavorativi) successivi, e per un’adeguata esperienza di vita, come si è detto, come cittadino “completo”. Ad esempio, recenti evidenze (West et al., 2016) indicano come attributi non cognitivi, come la coscienziosità e l’auto-regolazione/controllo, siano degli ottimi predittori di esiti formativi (ad es. accesso all’università) e lavorativi (ad es. tempo di accesso al mondo del lavoro). Ci sono poi una serie di “life outcomes” che vengono considerati in letteratura come legati allo sviluppo delle competenze non cognitive. Tra questi, ad esempio, la stabilità finanziaria in età adulta (Schoon, 2008) e la riduzione alla propensione al crimine e alla devianza (Sherman et al., 1997). Tale costrutto però si presenta con varie incongruenze e paradossi al proprio interno. Il primo è nel nome: tecnicamente non esisterebbero competenze (o abilità) di tipo non cognitivo, essendo un dato ormai acquisito che qualsiasi tipologia di competenza o expertise è tale anche (e soprattutto) grazie ad una solida base cognitiva, intesa come processamento di informazioni. Dall’altra parte è difficile pensare a processi cognitivi completamente sprovvisti di una base “emotiva” o “psico-sociale”. Le evidenze empiriche ci dicono come alcuni stili di apprendimento siano in parte influenzati da alcuni tratti di personalità (Bandura, 2001), oppure che l’aspetto emotivo infl uenzi ampiamente tutta una serie di processi eminentemente cognitivi, come l’attenzione e la focalizzazione, che sono frequentemente in balia di una più o meno marcata propensione ansiogena del soggetto (Eysenck, 2007). Si tratta dunque non tanto di competenze che stressano meno il nostro funzionamento cognitivo, ma “non accademiche”, cioè non centrate immediatamente sullo sviluppo di apprendimenti prettamente scolastici (literacy, numeracy, ...). Sarebbe dunque meglio chiamarle competenze “non accademiche” oppure “non scolastiche”, anche se queste etichette potrebbero comportare una infi nita sequenza di precisazioni (ad es. si potrebbe obiettare che il fare scuola non segue semplicemente lo scopo di far crescere la conoscenza su determinate discipline, ma anche di “formare individui” ad affrontare l’età adulta). La seconda incongruenza è sempre nel nome e riguarda la parola competenza, che risulta un concetto decisamente esplorato, soprattutto nel nostro paese. Nella letteratura sulle non cognitive skills sono ricorrenti, all’interno dello stesso contenitore, varie dimensioni (caratteristiche individuali, competenze e “intelligenze” diverse rispetto al classico “fattore G”) che tecnicamente, da un punto di vista psicologico, sono cose diverse. Ad esempio il modello del Big Five, spesso citato nei lavori di ricerca, descrive tratti di personalità (coscienziosità, estroversione, ...) che è difficile considerare come competenze in automatico, ma che sicuramente ne possono essere predittori o co-variate. Dall’altra parte, se si pensa che tali competenze siano acquisibili e quindi “insegnabili” a livello scuola, va da sé che il focus dovrebbe essere spostato un po’ più verso le competenze e meno sui tratti individuali, che, rispetto alle attuali conoscenze legate all’ambito della psicologia della personalità, sono decisamente meno dinamiche e meno frutto di un chiaro processo educativo-formativo. La terza incongruenza è nella misura di tale costrutto (che è una derivata della prima e della seconda). La letteratura riporta come la presenza prevalente di misure self report, anche in casi di strumenti consolidati (come il già citato Big Five), possa indurre tutta una serie di problematiche legate ai bias percettivi dei soggetti intervistati. Ad esempio negli Stati Uniti (in cui la raccolta di queste tipologie di competenze viene inserita all’interno di documenti scuola equivalenti al nostro RAV), è stato più volte segnalato il cosiddetto “reference bias”, che porterebbe gli studenti di scuole con maggior prestigio e reputazione a valutarsi in maniera più positiva rispetto a quelli di scuole con situazione opposta (Duckworth & Yeager, 2015). Dall’altra parte, la natura “performativa” del concetto di competenza, pone alcuni dubbi sulla misura di tale costrutto con misure esclusivamente self report. Del resto, questa è una critica che intercetta anche le indagini internazionali come OECD PISA (Fernandez-Cano, 2016). Tali incongruenze, come del resto accade nel dibattito empirico internazionale, più che frenare l’attenzione per tali competenze, non fanno altro che aumentarla, per trovare nuove soluzioni di tipo ontologico (cioè legate al “cosa” misurare) e empirico (legate al “come” misurarlo), oltre che pratico-applicativo (per rispondere, in parte, al “perché” misurare). Ciò che è chiaro, ad oggi, è il ruolo importante giocato da queste competenze nello scenario più ampio dello sviluppo individuale che, insieme con altre possibili dimensioni (di tipo individuale, sociale, culturale, educativo, …) contribuisce alla qualità delle carriere educative, lavorative e in genere all’esperienza di vita attiva delle persone. In ogni caso, questo tema si presenta come promettente e affascinate per nuove piste di ricerca e intervento didattico. Tale introduzione su questa specifica tipologia di competenze apre il primo numero del 2017 di Ricercazione. Si tratta di un numero miscellaneo, senza una precisa e univoca collocazione tematica, che però ha, sottotraccia, un filo conduttore costituito proprio dal tema “competenze” e “sviluppo di competenze”, per come le intendiamo all’interno del nostro sistema educativo e formativo. Apre il numero l’articolo di Impedovo e colleghe su un tema importante, e non privo di problematicità, cioè quello dello sviluppo di competenze che potremo definire disciplinari nella scuola di infanzia. La disciplina nello specifico dell’articolo presentato è la fisica, e le autrici sottolineano l’importanza, anche didattica, del passaggio dall’enfasi quasi esclusiva sullo sviluppo delle competenze linguistiche e sociali, tipico della scuola di infanzia, all’enfasi sui primi step di sviluppo dei concetti scientifici. Un articolo del numero è a cura di ricercatrici dell’area linguistica spagnola, in Europa e in Sud America. Il tema è quello della diffusione delle nuove tecnologie in ambito didattico (un tema che appare sempre in divenire, ma che ormai le nostre scuole sperimentano dagli anni ’80 in poi del secolo scorso …). L’enfasi è posta sugli eff etti negativi del determinismo tecnologico, tipico in ogni sistema educativo nell’inserimento di tecnologie al proprio interno. Le autrici si interrogano sugli strumenti a disposizione dei vari stakeholders coinvolti (docenti e scuole in primis) nei contesti Ispanico-Americani per controbattere gli effetti inevitabili del determinismo tecnologico. Non bastano le semplici tecnologie a portare innovazione, ma è necessario un lavoro più ampio sulle pratiche didattiche, e in genere sulla cultura educativa delle scuole. In questo lavoro fa capolino, anche se non immediatamente visibile, il tema delle competenze, soprattutto di quelle degli insegnanti, che si ritrovano a dover gestire ambienti di apprendimento che ormai non sono più equiparabili a quelli tradizionali, e in cui è necessario dimostrare, da parte loro, elevati standard di “mastering” delle nuove tecnologie nella didattica. Un altro lavoro, di Iliev, descrive, attraverso gli esiti di una ricerca empirica, le rappresentazioni dell’open education in un campione di insegnanti in formazione (studenti universitari) e insegnanti in servizio. L’ipotesi di partenza è che il concetto di open education, per sua natura prossimo all’innovazione radicale della concezione pedagogica tradizionale, sia visto in maniera negativa da parte dello staff educativo. Attraverso uno studio quantitativo l’ipotesi viene confermata, evidenziando paure e perplessità del professionisti dell’educazione per quanto riguarda l’applicazione della open education nei sistemi educativi dalla scuola primaria alla scuola secondaria. Due lavori, nel contesto italiano, si occupano, da angolazioni differenti, del tema disagio. Il primo, di Ferraro e Burba, descrive una serie di possibili strategie, in parte riconducibili al processo di orientamento, che è possibile mettere in atto a livello di sistema per ridurre il più possibile il precursore dell’abbandono (e delle scelte non di successo), cioè le varie forme di disagio. Attraverso una rassegna della letteratura e una sistematica descrizione di azioni possibili, le autrici disegnano uno scenario che è fatto di una consistente presa in carico del problema da parte delle istituzioni educative, in cui il ruolo della scuola non è marginale. Il secondo, di Girelli e Bevilacqua, descrive gli esiti di una ricerca realizzata in Trentino, in collaborazione con IPRASE in cui i dati raccolti, attraverso metodi qualitativi, sono focalizzati sulle rappresentazioni e sulle strategie attivate per la cosiddetta fascia di studenti in situazione di “disagio” (la fascia C degli alunni che pur non avendo una certificazione o un problema conclamato, si ritrovano nell’anticamera di problematiche maggiori future). Anche in questi lavori è chiaro il riferimento al tema delle competenze, soprattutto a quelle non “accademiche” o “scolastiche”, ma a quelle che maggiormente sono legate allo sviluppo del sé e delle identità individuali. Un terzo lavoro, di Reggio, approfondisce il tema del Work Based Learning come strategia di inclusione di soggetti svantaggiati nella formazione professionale. La descrizione è basata sugli esiti di un progetto europeo che ha coinvolto più paesi, oltre l’Italia. Chiude la rassegna il lavoro di Castoldi. Anche in questo caso si tratta della descrizione degli esiti di una ricerca-intervento curata da IPRASE sullo sviluppo professionale di quello che oggi identifichiamo come middle management della scuola (i referenti, i vicari, i responsabili, …). L’infrastruttura formativa fornita ad un gruppo di docenti del primo ciclo viene descritta, con interessanti approfondimenti sul set di competenze che, se potenziato, potrebbe produrre eff etti positivi nella gestione della leadership educativa distribuita all’interno delle scuole. Chiude il volume la recensione del libro “Troppo intelligenti per essere felici” di Jeanne Siaud-Facchin, a cura di Berescu. Il volume è un interessante esperimento narrativo in cui la competenza tradizionale (essere “intelligenti”) viene contrapposta, non senza situazioni di problematicità, a forme di intelligenza, altre, che riguardano ad esempio l’aspetto emotivo e sociale. È proprio vero che per essere felici bisogna essere non troppo intelligenti? Buona lettura!