Giovedì, 19 Gennaio 2023 - 13:46 Comunicato 118

Living Memory, la testimonianza di Halina Birenbaum

“La speranza è l’ultima a morire”: è questo il titolo scelto per l’incontro che si è tenuto questa mattina, presso la sala della Filarmonica di Trento, nell’ambito di “Living Memory”. E’ anche il titolo del libro pubblicato nel 1967 dalla scrittrice Halina Birembaum, sopravvissuta ai campi di concentramento, che oggi ha offerto la sua testimonianza in collegamento online da Israele. L’incontro, moderato dal direttore del quotidiano ilT Simone Casalini, ha visto sul palco della Filarmonica la presenza di Jadwiga Pinderska – Lech, direttrice delle pubblicazioni del Museo statale di Auschwitz – Birkenau, e di Luca Nicolodi, storico della Fondazione Museo storico del Trentino.
Incontro presso la sala della Filarmonica di Trento, nell’ambito di “Living Memory” (Simone Casalini, Luca Nicolodi, Jadwiga Pinderska – Lech, In video collegamento la scrittrice Halina Birembaum) [ Archivio Ufficio stampa PAT]

Nel libro e nella testimonianza dell’autrice, nata a Varsavia nel 1929 e passata dall’esperienza del ghetto della sua città a quella ancora più disumana dai campi di concentramento - Majdanek, Auschwitz, Ravensbruck e Neustadt-Gleve, dove viene liberata nel 1945 - il crudo racconto delle violenze, del dolore, degli addii, della quotidiana attesa della morte, della spersonalizzazione, ma anche delle emozioni e dei sentimenti che resistono nonostante tutto e delle storie delle persone incontrate e che hanno lasciato un segno nella sua vita.

La testimonianza prende le mosse dalla vita familiare prima della guerra, con un pensiero affettuoso dedicato ai fratelli ed ai genitori. E poi tutto precipita e nel ghetto ci sono la fame, il freddo, la costante ricerca di rifugi e nascondigli di fortuna per evitare la cattura e la deportazione, come qualche mansarda che vuol dire salvezza, la relativa sicurezza che dava il buio della sera, la solidarietà delle persone ma anche il pericolo della delazione.

I ricordi della Birenbaum sono vivi e precisi: davanti ai suoi occhi ancora la morte nelle strade per fame e per freddo, i controlli costanti e capillari nei diversi settori del ghetto, la domanda “Perché succede a noi?”, il desiderio di lei ancora bambina di cercare consolazione in qualche giocattolo da portare con sé negli spostamenti continui, la speranza nella fine del conflitto, le parole della mamma che confortano e fanno passare la paura.

E alla fine, dopo infinite vicissitudini e con l’obiettivo di sopravvivere all’orrore che si stava vivendo, la deportazione, il vagone ferroviario con le persone stipate, la ricerca dell’aria dai piccoli finestrini, l’accettazione di ogni bugia che potesse consolare, e poi ancora le condizioni atroci subite, la separazione progressiva dagli affetti più cari, la fatica, la fame e la sete, il dover apparire in salute nonostante tutto e più grande di quello che era per non essere mandata a morire e essere avviata invece ad un lavoro anche se durissimo, le condizioni di vita nelle baracche, la disperazione che si alterna al sostegno dato e ricevuto da altre persone nella sua condizione.

Il racconto di Halina Birembaum è passato dalla descrizione della vita all’interno dei campi a ricordi e sentimenti più personali, come le molte volte che ha visto da vicino la morte e come il suo attaccamento alla vita con tutte le forze. La speranza, ha detto, arrivava anche dal pensare che esisteva qualcosa oltre al campo di concentramento.

(lr)


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