Venerdì, 23 Settembre 2022 - 22:46 Comunicato 2928

Wielicki racconta come è cambiato l’alpinismo Himalayano

È stato il quinto alpinista al mondo a completare la salita dei 14 “ottomila” e l’esponente di punta di una generazione di alpinisti polacchi che negli anni ’80 affrontarono per primi i giganti del pianeta nella stagione invernale. E il primo teatro di questa sfida fu proprio l’Everest, salito da Wielicki con Leszek Cichy il 17 febbraio del 1980. Poi con Jerzy Kukuczka venne il Kangchenjunga nel 1986 e il Lhotse nel dicembre del 1988, in solitaria dal campo 3. Da capo spedizione, fino al 2018 non è stato da meno, guidando altre generazioni di alpinisti sul Broad Peak in inverno nel 2013 e tentando il K2 nel 2018. Al Festival dello Sport di Trento ha ripercorso con il giornalista Sandro Filippini alcune di queste imprese: “Volevamo scrivere anche i nostri nomi nella storia del grande alpinismo, ma per farlo dovevamo fare qualcosa mai fatto prima, e così ci inventammo l’alpinismo invernale in Himalaya”
KRZYSZTOF WIELICKI, QUANDO SCALARE ERA ESPLORARE Nella foto: Krzysztof WIELICKI Festival dello Sport Palazzo della Regione Trento, 23 settembre 2022 [ FOTO Daniele PATERNOSTER Archivio Ufficio Stampa Provincia autonoma di Trento]

Un gigante dell’alpinismo in Himalaya. Perché la storia dell’alpinismo sui giganti della terra senza Krzysztof Wielicki con i suoi 51 anni di attività, forse oggi avrebbe ancora molte pagine bianche. Dimentichiamo per un momento i campi base riforniti dagli elicotteri, le squadre di sherpa che preparano i tracciati, riforniscono i campi lungo la via di salita, i cellulari, i telefoni satellitari, e meteorologi che ti calcolano la finestra di tempo buono utile a raggiungere la cima e soprattutto a scendere. La generazione di Wielicki, la stessa di Kukuczka, Majer, Zawada, Hazier, Piotrowsky, Wanda Rutkiewicz, (che è anche quella di Messner, Bonington, Scott), ha potuto vivere sugli ottomila un alpinismo autenticamente esplorativo, andando alla ricerca delle linee migliori su pareti difficilissime e sfidando il gelo e le tormente della stagione invernale. E lo ha fatto per molti anni con materiali auto costruiti, equipaggiamenti del tutto inadeguati e spesso riciclati, come occhiali da saldatore per proteggere gli occhi dal riverbero della neve e dei ghiacci. Del resto di più non concedeva l’autarchia dei paesi del cosiddetto socialismo reale. 

“La spinta forte, la vera motivazione che ha mosso me e i miei compagni sul quelle vette lontane, ha raccontato al pubblico Wielicki, è stato che volevamo scrivere i nostri nomi in questa grande storia, accanto ai grandi alpinisti del mondo occidentale, francesi, inglesi, italiani. Per farlo dovevamo però fare delle cose nuove e così Andrej Zawada, il nostro migliore capo spedizione, pensò all’inverno. Eravamo a tutti gli effetti degli esploratori, avevamo fame di scrivere anche noi la storia”.

I ricordi e gli aneddoti di tante spedizioni scorrono insieme alle foto: alpinisti che indossano tute di pesante cotone, occhiali da saldatore a protezione degli occhi, maglioni di lana. “Sull’Everest dovevo salire con un altro compagno, ma la sua fidanzata arrivò al campo base e lui per andare a incontrarla scese rinunciando alla vetta. Sono comunque ancora felicemente sposati. Dalla cima riportammo delle pietre e dei campioni di neve. Vennero analizzati e scoprirono che era inquinata come fosse stata raccolta a Bombay, ed eravamo nel 1980!”
Per uno come Wielicki è facile  comparare stili e qualità dell’alpinismo. “Ai nostri tempi la scuola erano i Monti Tatra. Da li i migliori potevano avere la possibilità di scalare fuori dalla Polonia, nelle Alpi, in Dolomiti, un privilegio sotto il regime comunista. Ci inventavamo lavori nuovi per poter racimolare i soldi per partire in spedizione, come ridipingere le ciminiere. Alla fine della spedizione si cercava di rivendere la maggior parte dei materiali per rientrare con le spese. E per far tornare la contabilità ci inventavamo valanghe che avevano sepolto tende e altri materiali. Un periodo che è tramontato, oggi è tutto cambiato: i capi spedizione non esistono più, tutti gli alpinisti sono ben preparati e sanno i loro obiettivi. C’è una personalizzazione dell’alpinismo. Non ci sono più team, ma individui e internet che arriva al campo base ha contribuito a tutto questo. Se dovessi tornare a guidare una spedizione io personalmente lo escluderei.”

Ma cosa possono sognare oggi i giovani alpinisti? “Sono pochi e pericolosi i posti e le cime dove si può fare qualcosa di nuovo. Ma si può anche migliorare lo stile delle salite, disporre dei dai meteo al campo base offre un grande vantaggio. Però devo dire che, escludendo quelle commerciali, non si vedono molte spedizioni sugli ottomila, vanno magari su un sei-settemila. (MB)

(mb)


Immagini